Sono vent’anni che Derrick Green è nei Sepultura e per molti di noi, che li hanno conosciuti negli anni ’90, quando riempivano gli stadi capitanati da Max Cavalera, è ancora ‘il nuovo cantante’. Il tempo passa e le cose cambiano. Questa sera all’Orion, un locale alla periferia di Roma, non saremo più di quattrocento persone – ed è una stima in eccesso – vuoi per l’inaspettata ondata di maltempo e neve che ha colpito la Capitale, vuoi per una promozione forse non proprio battente, vuoi perché il music business si è trasformato ed effettivamente il metal e tutto ciò che gli è affine è lontano dagli anni d’oro, quello dei pezzi che passavano in radio e su MTV, di ‘Headbangers Ball’, delle riviste specializzate, dei negozi che vendevano maglie, bracciali chiodati e ciondoli a forma di croce.

Le cose cambiano, già, ma non è detto che sia un male. Perché ai brasiliani tutto questo non solo non sembra dare noia, ma anzi li spinge verso una nuova e ritrovata carica hardcore, entusiasti della possibilità di poter guardare i presenti direttamente negli occhi, suonano con grinta, passione e precisione se possibile ancora più accentuate che in passato, regalando uno show convincente e appassionante per i fan di tutte le loro fasi, grazie anche a una scaletta perfettamente bilanciata tra classico e nuovo.

Dopo l’Intro si parte chiaramente con la promozione dell’ultimo album, Machine Messiah, con l’aggressiva I am the Enemy ad aprire le danze, seguita da Phantom Self e da Kairos, title-track del transitorio disco del 2011. A infiammare veramente il pubblico e aprire il pogo selvaggio – un bel circolo al centro della pista, non numerosissimo ma agguerrito – è il riff incessante di Territory, dal classico Chaos A.D.. Puntata dritta al ‘91 con Desperate Cry, da Arise, a tutt’oggi uno degli album maggiormente apprezzati del combo, poi si torna al presente con Sworn Oath e Resistant Parasites, certamente gradevoli nella loro sperimentazione ai limiti del prog ma per molti di noi è il momento di rifiatare per andare a prendere una birra al bancone del bar.

La ricorrenza del ventennale è ricordata con il trittico Against/Choke/Boycott, tutte tratte dal primo album di Derrick con la band, del 1998. C’è da dire che il gigante d’ebano dal vivo ci fa una figura ottima, migliore certamente delle rese in studio dove spesso è soffocato dalla sovrabbondanza di suoni strumentali. Non solo la sua voce è ricca di armonici e nuances anche sulle tecniche più aggressive – cosa che, con tutto il rispetto, mancava a Cavalera, decisamente potente ma anche piuttosto piatto espressivamente – ma Derrick non esclude incursioni melodiche oltre a sapere come tenere la scena con la sua imponente figura, il suo cranio ormai totalmente rasato e i suoi interventi alle percussioni che aggiungono ‘fattore spettacolo’ a tutto il complesso.

Machine Messiah e l’assolo acustico ai confini del flamenco di Andreas Kisser su Iceberg Dances ci ricordano che oggi i Sepultura non sono più un gruppo metal rigidamente inteso – ammesso che lo siano mai stati – ma appaiono piuttosto come una compatta band di rock complesso e alternativo, sicuramente votata a un sound irruento ma che ha fatto tesoro anche della preziosa ricerca in campo etno-musicologico (non dimentichiamoci che si sono addentrati nel cuore della foresta brasiliana per registrare Kaiowas assieme a un gruppo di indigeni) sulle radici tribali della sua produzione. Oggi sono anche più rilassati e ne guadagnano in ironia, tanto che dopo il bagno di sudore finale costituito da Innerself, Refuse/Resist – dove rotola un po’ la batteria di Eloy Casagrande, per il resto ormai perfettamente integrato – e Arise tornano sul palco accennando al celebre tema Aquarela do Brasil di Ary Barroso per poi lanciarsi nel bis che entusiasma tutti con Slave New World, Ratamahatta e una Roots Bloody Roots da urlo.

Ultima nota sui gruppi di supporto: saltata la gig dei Goatwhore a causa di un incidente – non grave – con il tourbus, è da segnalare l’ottima prova dei tecnicissimi Obscura, in grado di comunicare, grazie anche alla connaturata simpatia del cantante e chitarrista Steffen Kummerer, una grande passione per la musica e per la vita da palco, non importa di fronte a quante persone. L’impressione generale, questa sera, è stata quella di trovarsi, insomma, di fronte a degli artisti e non a delle rock star irraggiungibili. E tutto sommato, ci è piaciuto.

Andrea Guglielmino