Fabio Recchia e Emanuele Tomasi, due grandi musicisti romani uniti in un duo originale: Nohaybanda!. Difficile catalogare il loro genere musicale che fonde l’amore per la musica elettronica, la tecnologia, il jazz e l’improvvisazione con un grosso background di musica classica. Ma Nohaybanda! non è solo questo. Infatti, il loro marchio di fabbrica è quello di essere un gruppo “Plug & Play” come si sono loro stessi definiti. Un duo che suona come una vera band. Abbiamo avuto il piacere di fare una lunga chiacchierata con Fabio che vi riportiamo nella nostra intervista. Superfluo dirlo, ma ovviamente il loro album merita assolutamnete di essere ascoltato.
Chi sono i Nohaybanda! e quali sono le loro origini?
Diapason Vibe: Intanto diamo il benvenuto a Fabio Recchia dei Nohaybanda! che ringraziamo per la disponibilità. Prima ancora di conoscere chi c’è dietro a questo gruppo, partiamo subito dal nome della band, che tra l’altro in origine era Nohaybandatrio. Cosa significa e da dove deriva?
Fabio Recchia: Il nome esatto è Nohaybanda! con il punto esclamativo finale e proviene da Mulholland Drive di David Lynch, film uscito nelle sale italiane più o meno in concomitanza con l’inizio del nostro progetto. L’idea originale era basata su dei musicisti che suonavano più strumenti per generare una sorta di illusione musicale, come se ci fossero più componenti di quanti fossero realmente. Siamo partiti come trio, appunto Nohaybandatrio, insieme a Marcello Allulli, il nostro caro sassofonista e voce per più di 10 anni. Nel 2013 dopo il tour norvegese e prima del tour americano abbiamo deciso di proseguire questa avventura in due, io ed Emanuele Tomasi.
Perché Lynch e perchè Mulholland Drive?
Intanto per l’amore per Lynch ma sicuramente una scena in particolare di Mulholland Drive ci ha ispirati. Nel film si gioco sul ruolo del playback negli spettacoli di teatro dove un’orchestra non c’è. Senti i diversi componenti ma questi effettivamente non ci sono.
Cercando un po’ in internet abbiamo trovato diversi progetti con il vostro stesso nome, ne siete a conoscenza?
Sappiamo che la popolarità del film, arrivata leggermente dopo come per molte grandi opere, ha ispirato tantissime altre persone. Infatti, anche quando noi ci siamo formati, esisteva già un altro gruppo nord europeo che si chiamava No hay banda e per questo motivo abbiamo iniziato con il nome di Nohaybandatrio. Ora che siamo rimasti in due, era inutile mantenere la parola trio nel nome. Abbiamo però messo un punto esclamativo alla fine proprio per agevolare la ricerca e per essere trovati su Google.
Quindi il punto esclamativo è più una scelta di marketing che stilistica o di vezzo?
Marketing per noi è una parola grossa. Sapevamo che ormai nel 2018 il numero di altre band con questo nome era cresciuto a livelli esagerati. Lo abbiamo fatto per aiutare la ricerca della nostra band. L’ispirazione era sempre quella del film e siamo contenti di essere tornati alle origini.
Chi sono Fabio Recchia ed Emanuele Tomasi e come sono cresciuti musicalmente?
Sia io che Emanuele abbiamo iniziato a suonare fin da quando eravamo veramente piccoli. Da subito avevamo le idee chiare su quello che volevamo fare da grandi e la professione del musicista è arrivata più o meno subito, ovviamente tutti quanti i deliri del caso, i deliri famigliari e i deliri della vita che ti portano ad organizzare il tempo in una maniera totalmente differente. Lele ha iniziato un percorso classico prima di studiare della batteria. Dice sempre che lo studio del pianoforte e delle tastiere gli ha regalato l’indipedenza. Anche io ho iniziato studiando pianoforte e musica classica e quest’anno festeggio 35 anni di musica. Mi sono poi dedicato alla musica elettronica con una breve pausa adolescenziale nel mondo Metal, fino ad approdare in campi un po’ più avanguardistici. Anche se effettivamente in oltre cinquanta pubblicazioni che ho fatto, non c’è nessun lavoro veramente avanguardistico. Sono tutti comunque un filo romantici, con spunti melodici interessanti e a volte quasi pop ma mai troppo cervellotici. Comunque già appena maggiorenni lavoravamo con la musica. Io ho aperto uno studio a 21 anni mettendomi anche dall’altra parte del vetro, una cosa che adoravo e che negli anni è stata utilissima. Infatti, sono diventato il produttore e il fonico di tutti i miei gruppi. Tra l’altro, in fase live è sempre molto utile avere dentro il gruppo chi produce i suoni così da avere un orecchio più attento a tutte le situazioni.
Parlando di influenze musicali, quali sono gli artisti che vi hanno condizionato maggiormente?
La mia deriva metal ha avuto un corso breve con i Metallica e un super classico come Kill’em all che a 13 anni mi ha aperto le porte dell’aggressività musicale. Ma da lì a breve sono approdato nel metal estremo e nel nuovissimo Grindcore fine anni 90, quindi Napalm Death, John Zorn che mi ha dato un’altra botta al mezzo di locomozione musicale con i Naked City. Sempre John Zorn insieme a Bill Laswell e Mick Harris, batterista dei Napalm Death, con il progetto dei Painkiller. A quell’età provenendo dalla musica classica, mi affascinavano molto i drumming super veloci e le parti molto tecniche portate all’estremo. Sono arrivati poi i sintetizzatori e la musica elettronica e da pianista ovviamente il passo è breve. Potevi avere in una sola macchina tantissime opzioni, cosa che prima sarebbe stato impossibile, se non dopo anni di studio e questo solo per riuscire gestire un sintetizzatore analogico. Da qui ovviamente la deriva elettronica con la Warp e la Rephlex come etichette capostipiti e madre dell’IDM (Intelligence Dance Music). Grandi artisti come Aphex Twin, Plaid, Autechre, Boards of Canada etc. etc. Emanuele frequenta ancora tantissimo questo è un universo ed infatti è stato lui a farmi conoscere Flying Lotus, un producer di musica elettronica che ha inventato una sorta di sottogenere dell’IDM incrociato con l’hip hop.
La particolarità dei Nohaybanda!
Tornando al duo, come fate in solo due persone a suonare come una banda intera?
Per chi non conoscesse il nostro set, io suono basso e chitarra più o meno in contemporanea usando una sorta di tapping e legato e “appoggiandomi” sul synth, mentre Emanuele suona la batteria, cassa e rullante, e grazie a dei trigger remota dei campionatori. In alcuni casi uso l’arpeggiatore che funge anche da metronomo per inquadrare le parti più matte. Siamo in pratica un set Plug & Play! Andiamo in giro con una panda a metano con dentro il full-backline, quindi batteria, amplificazione, mixer, microfoni, insomma tutto quanto. Arriviamo, scarichiamo, montiamo e senza fonico riusciamo a gestire più o meno tutto dal palco anche in ambienti grandi. Ovviamente questo mette un filo più di tensione e bisogna essere sempre concentrati, però così riusciamo ad imprimere il nostro marchio di fabbrica. Già avere semplicemente una batteria diversa, microfoni deversi, un tecnico del suono diverso in ogni locale e il suono cambia completamente. Avere invece il tuo piccolo laboratorio da asporto ti da sicurezza anche se sei cosciente che potresti prendere delle cantonate. L’importante è riconoscerlo e fare attenzione ad evitare di ripetere gli errori.
Come avviene quindi un vostro sound check senza un fonico?
Mezzora, quaranta minuti di assemblaggio del set e dieci minuti di line check. Partiamo con il nostro mixer già più o meno settato per ricevere i nostri canali equalizzati nel modo giusto, i riverberi e i compressori. Usiamo poi dei trigger sulla batteria che remotano dei campioni di un sampler. Abbiamo qualche collegamento sbilenco a cui dobbiamo fare particolarmente attenzione, ma una volta acceso l’armamentario, un pezzo e via!
Alla fine siete autosufficienti a tutti gli effetti a parte le casse e l’amplificazione?
Si, noi portiamo circa 3 mila Watt di monitoring ed il nostro monitor e con questi la situazione acustica si chiude visto che usiamo simulatori di cono per basso e chitarra. In questa fase di duo abbiamo riscoperto e rispolverato tutta la passione per l’elettronica motivo per cui abbiamo inserito sintetizzatori, sampler, triggering ed effetti anche sulla batteria. Il disco è stato registrato in presa diretta. Per questo motivo i nostri brani sono tutti riproducibili live.
Il vostro disco, come hai appena detto, è totalmente riproducibile dal vivo, cosa spesso non fattibile nemmeno per le band più famose e navigate, complimenti!
Noi proviamo ad essere onesti con il pubblico quando portiamo la nostra proposta. Siamo contenti anche quando non piace assolutamente. Non vogliamo strizzare l’occhio a nessuno. Non è l’unica band che abbiamo e, in questa direzione, è esattamente quello che vogliamo dire e per dirlo bene ci portiamo magari qualche attrezzo in più. Dal vivo questo ci fa stare meno in ansia, è come essere a casa: sei più comodo e riesci a suonare in maniera più rilassata. Ovviamente, nelle mille situazioni differenti ogni volta c’è lo schema tecnico da rielaborare però è anche stimolante perché cerchi di tirare fuori sempre il meglio del tuo gruppo.
Però la conformazione delle diverse sale e le differenti geometrie incidono totalmente a livello di acustica sulla propagazione del suono. Come vi comportante?
Infatti la microfonazione della batteria cambia in base al posto. Se siamo in una situazione all’aperto da 30 mila watt tendi a microfonare tutto. Se sei in un pub con un impianto piccolo magari metti giusto un panoramico con solo gli effetti e i trigger. Insomma cerchi di giocartela in maniera efficacie facendo i giusti calcoli. Una cosa che ci aiuta molto è non avere amplificatori da microfonare e lavorare solo con simulatori di cono e una scheda audio che finisce in un mixer. Ovviamente in alcuni casi, in palchi super riverberati, non puoi fare nulla se non è avvenuto un trattamento acustico ideale. Questo penalizzerà non solo il tuo gruppo, ma anche le super produzioni e purtroppo ci sono diversi esempi in Italia. Invece in America ci sono capitati pub di media grandezza, quindi locali da 100 persone, con impianti sovradimensionati con tanto di fonico sessantenne con dread bianchi fino a terra, che suonavano in maniera impeccabile. Qualsiasi gruppo che sentivi suonare, sembrava di ascoltare un disco. Non solo in America ma anche in Norvegia abbiamo riscontrato una parte tecnica veramente super prestante.
Parlando del nuovo album Nohaybanda!
Questo è il vostro quarto lavoro, un album omonimo e il primo come duo: volete per caso segnare una linea di confine tra il passato ed il futuro come se fosse una sorta di nuovo inizio?
Esatto, corretto. Inoltre il disco è un no-copyright.
La scelta di non avere copyright ci ha colpito molto. Come mai questa decisione?
Personalmente, non credo nel Diritto d’Autore e in generale è un discorso applicabile a tanti aspetti della vita. In una recente intervista parlavo anche della farmacologia. Faccio spesso l’esempio della penicillina, oggi probabilmente sarebbe stata brevettata, quando invece fu una scoperta che salvò tantissime vite. Per me il no copyright è proprio cercare di non privatizzare le idee in generale, cosa sicuramente irrealizzabile nell’immediato ma anche noi musicisti undergound di ricerca dovremmo dare il buono per esempio. Non è un discorso contro il monopolio della SIAE, per me è sbagliato il concetto del Diritto d’Autore. Soprattutto mi stupisco di chi è molto attaccato a questa storia del Diritto d’Autore però poi si scarica i film da internet. Molto spesso vale solo per i singoli, cioè per i miei brani va pagato, però poi io la musica me la scarico e i film me li vedo in streaming. Ovvio che quel pezzo ha un autore ed è giusto che venga riconosciuto ma la musica è di tutti, è libera. È la contabilizzazione e la privatizzazione che è un po’ strana effettivamente. Facciamo un esempio paradossale: Casapound decide che SS1 di Nohaybanda! è la loro colonna sonora per uno spot propagandistico. Basta che mi paga il mio Diritto d’Autore ed io nemmeno so che il mio pezzo viene usato per questi scopi. Gli autori dovrebbero essere sempre avvisati di come viene usata la loro opera. Comunque noi siamo dei semplici intrattenitori, però secondo me tutte le cose a servizio dell’essere umano andrebbero, prima o poi, liberalizzate tutte.
Parlando ora più approfonditamente del vostro disco omonimo, hai accennato prima di registrazione in presa diretta. Preferisci quindi questo metodo alla classica registrazione separata traccia per traccia?
Esatto, non faccio mai registrazioni separate, soprattutto con questo gruppo anche se è una caratteristica comune di tantissimi miei progetti. Registrare separati, raffredda il nostro sentire la musica. Da produttore discografico so che è sicuramente più facile registrare un gruppo separato con la solita trafila: prima la batteria poi il basso poi la chitarra etc. etc. Utile se si deve intervenire sul suono per aggiustare le take, per scegliere le performance migliori e per fare editing quando i tocchi non sono così perfetti. Però è una situazione che a mio avviso genera tanti dischi freddi e identici che poi dal vivo, nella maggior parte dei casi, sono irriproducibili senza un producer. Solo così capisci come suona la band, se è veramente così incollata come si sente nelle registrazioni e se veramente il cantante è così intonato. Ovviamente, come avviene nel Jazz, anche nel nostro genere musicale si registra solamente in presa diretta perché l’improvvisazione, l’interplay, il suonare e creare delle atmosfere insieme sono elementi di fondamentale importanza. Sarebbe impossibile registrare in una maniera altrettanto morbida, fluida e musicale.
Parlando invece delle immagini e dell’artwork del disco, cosa puoi dirci?
Le foto le abbiamo scattate mentre realizzavamo il video clip ufficiale di SS1 all’interno dell’Acrobax, l’ex cinodromo occupato a Roma. Abbiamo voluto mantenere un profilo basso e minimale per quanto riguarda l’immagine di Nohaybanda!, non la solita foto con sfondo neutro e la band in primo piano. Volevamo stare in un contesto che ci appartiene come quello dei centri sociali dal quale veniamo. L’artwork invece è realizzato interamente in silicone, per un peso di ben 300gr, con un’illusione ottica ottenuta da un calco concavo ottenuto da una bambola. Sono venute sette sezioni differenti come sono sette le canzoni dell’album. Ho un piccolo laboratorio casalingo in cui assemblo manualmente questi dischi miscelando un silicone bicomponente. Una delle cose sfiziose di queste colate è che il silicone viene miscelato ogni volta con farine differenti e quindi ogni copia è effettivamente originale ed unica. Per la realizzazione dell’artwork mi hanno dato una mano Pinkman Studio e Roberto Mattiucci, il nostro grafico ufficiale. Questo formato è ovviamente in copie limitati. Abbiamo inoltre dischi nel formato slim anche questi realizzati a mano, infatti sono timbrati ad uno ad uno.
Ci hanno incuriosito molto i titoli delle canzoni, sempre composti da 3 caratteri, Come mai? Hanno un significato ben preciso? Sono degli acronimi?
Tre caratteri per sette tracce. Sono lettere e numeri che riassumo alcuni caratteristiche delle canzoni. I pezzi nascono in maniera totalmente libera e slegati da quelle che poi sono state le sigle che abbiamo utilizzato. Per esempio il titolo del primo pezzo SS1 in realtà nasce dal modo che usavamo per chiamare il riff di quella canzone. Allo stesso tempo a livello sonoro, pronunciando in inglese S-S-1, ci sembrava assomigliasse ad “access” motivo per cui è divenuto il brano di apertura del disco. Queste sigle ci facevano venire in mente anche dei nomignoli che potevano essere abbinati a sette personaggi, tanti quante le sezioni dell’artwork ottenute da questo volto di bambola.
Possiamo sicuramente dire che non è una musica che si presta ad un ascolto distratto o che viene relegata ad un semplice sottofondo musicale. O si è in sintonia o niente, bisogna per forza di cose fermarsi ad ascoltarla attivamente.
Questo è un disco dinamico con delle parti molto forti e molto intricate e delle parti molto più distese tipo da colonna sonora. I pezzi sono molto differente l’uno dall’altro e a volte anche con accordi molto romantici e melodici. Probabilmente durante un ascolto in sottofondo arrivano solo delle pennellate e non ne arrivano altre. Come tanti dischi dinamici che vanno sentiti con più di attenzione, alcune parti si apprezzano solo se sentite al volume giusto.
Avendo ascoltato il disco comunque si denota una grossa conoscenza tecnica e a tratti con influenze progressive.
Io di progressive ne ho sentito tantissimo, è inutile negarlo. Genesis e altri grandi classici dell’epoca sono tra i miei ascolti preferiti. Ma non penso che Nohaybanda! porti avanti un discorso tecnico. In realtà è particolare il set, un set difficile da dominare, ma i pezzi di per sé non sono molto tecnici. Brani basati sul poliritmo ma con arrangiamenti miniali incentrati più sul groove più che sugli stacchetti, infatti non c’è nessun solo nei nostri pezzi. Riuscire a suonare oggi un pezzo classico al pianoforte è sicuramente molto più difficile e molto più tecnico di qualsiasi nostro brano anche se eseguito al quadruplo della velocità.
In ogni caso non troviamo il classico 4/4 o 12/8, ma abbiamo difronte tempi abbastanza particolari e non comuni. La scelta ritmica genera comunque un’emozione particolare.
Effettivamente questo andamento di più tempi che si danno un appuntamento sempre diverso nell’arco della partitura crea instabilità. Un rinnovamento continuo di un riff ossessivo che però si sposta nel tempo ma mettendo questa pulsazione che si aggrappa al quattro riesce in qualche modo a fartela risultare meno difficile da seguire. È più uno sguardo a come possono i poliritmi assomigliare a delle situazioni di vita reale e non volere per forza interrompere un corso fluido di un 4/4. Cerchiamo di affrontare tutti i nostri poliritmi nella maniera più fluida possibile. Probabilmente in Italia fa sicuramente scuola la musica leggera più di ogni altro genere e ci si aggrappa tantissimo al 4/4. Se pensiamo anche alla musica elettronica, in Italia va per la maggiore la Techno e derivati, tutta musica di base “dritta”. Probabilmente riesci a vedere le persone ballare sulle nostre ritmiche molto più all’estero che in Italia.
Progetti per il futuro e prossimi tour
Quali sono i progetti per il futuro?
Stiamo finendo di organizzare un tour tra Italia ed Europa tra marzo e aprile. Probabilmente l’estate sarà dedicata a qualche festival e già cominciano ad arrivare le prime richieste. Dobbiamo pensare al puzzle geografico di date. In cantiere per questa estate c’è anche una registrazione di cui però ancora non posso parlare ufficialmente.
Ripartirete da Roma per il tour?
Non ripartiremo da Roma, probabilmente torneremo a Roma. Abbiamo un po’ trascurato Roma negli ultimi quattro anni perché abbiamo avuto molte richieste soprattutto all’estero. Tra l’altro la nostra città purtroppo non se la passa benissimo. Infatti, negli ultimi anni ha visto la moria di posti tra quelli chiusi e quelli sgomberati. Un anno fa è stato chiuso il Brancaleone che ha fatto una parte della storia di Roma soprattutto dal punto di vista della musica elettronica. Poi la chiusura del circolo ARCI DalVerme che, per quanto piccolo, era sempre super frequentato. Insomma di posti che sono caduti ahimè sono stati tanti negli ultimi anni. In ogni caso per il nostro prossimo tour quasi sicuramente ci fermeremo a Lione e a Parigi per poi passare in Belgio e/o Olanda e riscendere giù passando dalla Germania o nuovamente dalla Francia sperando di ripassare nuovamente per la nostra città.
Allora speriamo di incontrarvi presto! Grazie mille e in bocca al lupo per i vostri progetti musicali.