Dream Theater – The Top Of The World Tour 2022 // Palazzo dello Sport (Roma)
Il servizio fotografico della serata è stato realizzato da Andrea Cavallini (Web | Facebook | Instagram).
Andare a vedere dal vivo i Dream Theater è sempre un’esperienza molto particolare, soprattutto per chi, come me, è cresciuto con la loro musica e che, con scarsissimi risultati, cerca ogni tanto di eseguire la loro musica con la chitarra. Per tanti motivi, non solo affettivi, non è semplice rimanere per quanto possibile oggettivi nel raccontare questo ultimo loro spettacolo. Infatti dal 2017 questa è la quarta volta consecutiva che mi ritrovo nella doppia veste di fan e fotografo (le prime due volte all’Auditorium Parco della Musica e le ultime due al Palazzo dello Sport di Roma). In questa occasione, la difficoltà non è legata solo nel cercare di raccontare la loro esibizione in maniera veritiera, ma anche quella ritornare a scattare dopo il blocco imposto dalla pandemia. Di fatto questo è il mio primo concerto dopo lo stop forzato del marzo 2020, data del primo lockdown avvenuto solo pochi giorni dopo il mio ultimo concerto da fotografo per il tour precedente Distance Over Time Tour 2020. Questa coincidenza mi ha perseguitato per giorni, dandomi la sensazione un cerchio che si chiudesse. Non a caso, per chi conosce bene Diapason Vibe, sa che un altro cerchio si era chiuso appunto con il precedente concerto: questa rivista nasce da un desiderio ben preciso di coniugare fotografia e musica e nel lontano 2014 l’obiettivo prefissato era appunto quello di fotografare i Dream Theater.
Ma partiamo dal principio.
Come detto, è il mio primo concerto post-Covid e l’emozione e il nervosismo sono innegabili, soprattutto perché riprendo con una band a me cara. Arrivo al Palazzo dello Sport con il giusto anticipo, velocemente passo in cassa accrediti per ritirare il mio pass, il tempo di fare un po’ di chiacchiere con i colleghi che non vedevo da quasi tre anni e in dieci minuti sono sottopalco. Con immensa gioia noto lo spazio del pit – il corridoio di sicurezza tra il palco ed il pubblico delimitato dalle transenne – che è più abbondante del solito, cosa che garantirà sicuramente libertà di movimento tra i fotografi. In apertura si esibisce Devin Townsend, cantante e chitarrista noto nell’ambiente divenuto famoso nel 1993 cantando nell’album Sex & Religion di Steve Vai. Finita la loro performance noto, con un pizzico di dispiacere, che il palazzetto è ancora mezzo vuoto. Non mi riferisco solo gli spalti ma anche il parterre. C’è ancora un po’ di tempo prima dell’inizio, ma alla fine dello spettacolo dovrò comunque constatare che non si è riempito di molto. Siamo finalmente al cambio palco ed una delle primissime cose che salta ai miei occhi è una sorta di austerità nello spettacolo: il tutto è ridotto all’essenziale con una batteria minimalista che quasi non rientra nello stereotipo di una band metal progressive; eravamo ormai abituati alle tre casse per un doppio pedale aggressivo con un Mangini quasi seppellito dal suo drum-set, mentre ora ha solo pochissimi elementi ed una sola cassa. In ogni caso la differenza pre/post – covid (se possiamo definirla post-covid la situazione attuale) è comunque palese, non solo nella quantità di persone presenti e allo spettacolo stesso, ma anche dal fatto che a differenza del 2020 in questo tour non c’è stata possibilità né di meet & greet né tantomeno di aftershow.
Come da policy ormai costante, per le fotografie abbiamo a disposizione solo i primi 15 minuti dello spettacolo (e non i classici primi tre brani). Forse, questa volta, la band ha voluto aiutare tutti quanti scegliendo come prime due canzoni della loro scaletta The Alien brano di apertura del loro ultimo album A View From the Top of the World e 6:00canzone di apertura di Awake la cui durata totale è esattamente di 15 minuti. Finita 6:00, Petrucci inizia il primo lancio di plettri (non quelli con cui suona ma altri fatti appositamente per i fan) ed uno di questi passa sopra la mia testa, mi giro immediatamente e lo vedo rimbalzare sulla transenna che mi separa dal pubblico e come un pallone da basket che rimane in bilico sul canestro nei secondi decisivi di una partita, io ed alcuni ragazzi in primissima fila rimaniamo quasi in apnea – mentre una serie di mani e di grida selvagge si sollevano nella foga di afferrare l’oggetto dei desideri – finché, per mia grandissima fortuna, non cade esattamente dal mio lato a meno di un metro da me. Velocemente mi avvicino e mentre mi chino per tentare di prenderlo vedo tante mani che cercano di inserirsi sotto le transenne come tante chele. Alla fine, per la delusione dei ragazzi in prima fila, riesco a prenderlo io. Ho già detto che sono un loro fan e anche un “chitarrista”? Mi gongolo per qualche istante al pensiero del mio secondo trofeo (il primo è ovviamente già quello di stare sottopalco a pochi centimetri da loro).Noi fotografi “rubiamo” ancora qualche istante sottopalco nell’attesa che qualcuno ci faccia segno che il nostro tempo è finito.
Abbiamo la fortuna di assistere, anche se per pochissimo, all’inizio del nuovo brano il tempo giusto per poter vedere a distanza ravvicinata John Petrucci con la sua Majesty 8, la sua ultima signature della Ernie Ball Music Man nonché la sua prima chitarra ad 8 corde utilizzata per Awaken The Monster terzo brano in scaletta. Chitarra poi presa e riposta visto che di fatto è l’unica canzone in cui viene utilizzata.
Veniamo alla fine invitati ad uscire dal pit e tempo di riporre tutta l’attrezzatura nello zaino, senza nemmeno controllare quello che avevo scattato, e continuo la mia serata ora nella semplice veste di spettatore giù nel parterre. Nel frattempo il concerto procede senza un intoppo e mi trovo per un momento a riflettere su un fatto parallelo: mi sento infatti come Gollum e Bilbo Baggins de Il Signore degli Anelli e la loro dipendenza dall’anello. Mi trovo, infatti, a controllare letteralmente (e qui mi sento più Bilbo) la tasca dei miei jeans per assicurarmi che il plettro sia ancora al posto suo.
Parlando finalmente della scaletta della serata, a mio avviso, è stata uno dei fattori che ha inciso sull’affluenza. Infatti, abbiamo già visto quali erano i primi tre pezzi, parliamo di “solo” 10 canzoni compreso l’encore, per un totale di 2 ore di spettacolo quasi ininterrotto.
- The Alien
- 6:00
- Awaken the Master
- Endless Sacrifice
- Bridges in the Sky
- Invisible Monster
- About to Crash
- The Ministry of Lost Souls
- A View from the Top of the World
Encore:
- The Count of Tuscany
La pausa più lunga è quella appunto tra A View From the Top of the World e The Count of Tuscany per l’encore, oltre ad un breve discorso di Labrie alla fine di Bridges in the Sky. C’è chi rimpiange già scalette e performance del passato, ma qui ovviamente parliamo di canzoni che vanno per la maggiore dai dieci ai venti minuti, condizione che riduce drasticamente la possibilità di variare o aggiungere altri brani.
Come avviene ogni volta, le reazioni sono molteplici e spesso opposte: chi l’ha definito “il miglior concerto di sempre”, chi è invece rimasto totalmente deluso. Io personalmente pendo più per la soddisfazione sebbene non lo ritenga assolutamente il loro miglior concerto, anzi un concerto sotto i loro standard. Nonostante tutto anche questa volta, come ormai ad ogni concerto, resto sempre piacevolmente colpito dal pubblico variegato e non posso che sorridere quando vedo bambini nella fascia 8 – 12 anni che cantano le canzoni o ballano semplicemente al ritmo insieme ai genitori.
Dal punto di vista dell’esecuzione, inutile ribadirlo, sono sempre ineccepibili e perfetti. In quanto “aspirante chitarrista” rimango sempre affascinato dal numero di note che riescono a suonare con una tale apparente facilità e scioltezza che provoca spesso una disarmante frustrazione. Infatti, proprio uno dei commenti che ho letto maggiormente, al di là di specifici giudizi su show e performance, è stato proprio: «ma quante note suonano?». Rispetto all’esecuzione generale, giusto qualche sbavatura di Labrie ogni tanto che comunque ha tenuto meglio il concerto rispetto al 2020. Petrucci risulta spesso il vero front-man del gruppo, ma anche Labrie è stato molto coinvolgente con il pubblico. Myung rimane sempre “silenzioso”, fa la sua parte come la spina dorsale del gruppo ma purtroppo, a mio avviso, troppo in ombra e defilato: il solo momento di risalto è stato durante il suo unico solo verso la fine della serata. Anche Rudess, a parte il suo momento con la keytars (la tastiera – chitarra) o quando gioca con le luci dietro di lui mentre suona, mi è sembrato fare il suo lavoro ma con meno passione del solito. Mangini forse troppo secco e meccanico, quasi un robot, troppo “metronomo” e un po’ freddo cosa che, per un gruppo che spesso viene considerato appunto così, sembra un giudizio ancora di più estremo.
In ogni caso, se lo spettacolo è trascorso in maniera perfetta nell’esecuzione ma un po’ distaccato, è proprio quando ritornano sul palco per l’encore con The Count of Tuscany (altri 20 minuti di canzone) che danno il meglio di loro. Qui si respira tutta l’energia ed il trasporto della band che vengono restituite dal pubblico con altrettanto calore. Piccola chicca durante il brano quando in retroproiezione passano delle immagini a noi italiani sicuramente care: appaiono, infatti, diversi scorci della Toscana e precisamente della zona della Val d’Orcia, dal famoso Podere Belvedere, a Poggio Covili con il suo viale e i tipici cipressi toscani che incorniciano la via, fino alle rinomate curve che scendono da Monticchiello, strada che fu anche location anni fa di uno spot pubblicitario automobilistico. Secondo il mio modesto giudizio, alla fine, valeva la pena di acquistare il biglietto anche solo per assistere a questi momenti finali. Un buon modo per chiudere la serata e tornare a casa senza troppo amaro in bocca.
Come nella precedente occasione, il giudizio finale rimane sostanzialmente invariato e ritengo di aver partecipato non al migliore ma tantomeno loro peggiore show ma, a conti fatti, ho comunque apprezzato di più il precedente concerto. In ogni caso resto sempre con un’ottimistica speranza che il prossimo sarà comunque migliore.
Andrea Cavallini